Lucio Dalla - La casa in riva al mare.
Il campanello, in ottone, gli svelava finalmente il vero
nome: Giada Franchini. Lui cercava Maria. Ma sapeva che il suo nome non sarebbe
stato quello. Il suo indice si accanì sul pulsante. Avrebbe risposto, prima o
poi. Il legno scuro della porta si spostò, ma solo di poco. Marco ne vide il
viso. Due occhi verdi lo fissavano oltre quell’uscio pesante. Pensò allo
sguardo triste, supplicante di quel detenuto che non avrebbe visto mai più e si
fece coraggio.
- Buonasera, signora, sono una guardia penitenziaria del
carcere qui di fronte, devo consegnarle un pacchetto.
Mai si era sentito, prima di allora, così inadeguato. Glielo
aveva promesso, sapeva che Federico sarebbe morto, di lì a poco e si era
lasciato convincere. Se il direttore del carcere lo avesse saputo, Marco
avrebbe passato dei guai. Il piccolo pacco scivolò nelle mani della donna.
Senza una parola le dita si avvolsero sulla carta a fiori e rientrarono nella
casa coperta da un’edera invadente.
Voltò le spalle. Il suo compito era stato assolto, la
coscienza poteva dormire sonni tranquilli. Non fece in tempo a fare dieci
passi, la voce femminile lo fece voltare ancora verso quella casa che aveva,
come solo confine, l’acqua irrequieta del golfo.
- Grazie.
La voce della donna gli diede la sicurezza di avere compiuto
ancor più del suo dovere. Tornò a dirigersi verso il carcere, ma quella parola
sussurrata di là dalla porta rimase legata alla sua anima.
Marco non capiva. Non capiva chi viveva lì dentro senza una
speranza. La vita è nulla senza aspettative. Eppure l’unico modo per
sopravvivere in un carcere era dare un valore diverso alle cose. Innanzitutto
la vita, la propria. E poi il resto. Ma la vita, prima o poi ti saluta, se ne
va. E lascia le tue cose a chi ti deve svuotare la cella. Marco si ricordò
della sera precedente. Federico la chiamava Maria, la vedeva dalla cella, la
seguiva, la venerava. Le normali follie di un ergastolano. Non sapeva neppure che
il suo vero nome era Giada. Ma l’amore non si fa fermare da quattro barre di
metallo verticali, pensò la guardia carceraria.
Marco svuotò l’armadietto metallico. Una lettera sigillata.
Per Maria. Basta, pensò Marco, Federico mi ha chiesto semplicemente di portarle
il pacco, perché dovrei sentirmi obbligato anche a portarle la lettera? Ricordò
la sua promessa, due giorni prima: “quello che troverai per Maria, portalo a
lei, ti prego”.
Il campanello, ancora
in ottone, lo fissava. Sembrò chiedergli: “che ci fai ancora qui?”. Eppure
Marco si trovava, per la seconda volta, davanti a quell’uscio, ad affondare il
dito nel pulsante per richiamare quegli occhi verdi che Federico, dalla sua
cella non aveva potuto scorgere. La
porta, questa volta, si aprì completamente. Il sorriso della donna lo ripagò
del tragitto, a piedi, dal carcere a quella casa in riva al mare. Tremante le
porse la lettera. L’anulare della mano destra della donna era cinto da
quell’anello che Federico le aveva costruito nella sua cella. Fil di ferro e
una gemma finta. Aveva visto Federico mentre lo realizzava. E aveva chiuso un
occhio. Decisamente romantico, tenendo conto che Federico era un serial killer
che aveva massacrato una decina di donne. Come Maria, o Giada, o come diavolo
si chiamava.
Il divano era morbido, blu come la notte. Il tavolino, davanti
alle gambe dell’uomo, era impolverato. Giada non doveva ricevere spesso ospiti,
pensò. Il rumore inconfondibile della moka che sputa il caffè ricordò a Marco
che la donna sarebbe tornata in quel salotto dai mobili scuri tra poco. La
curiosità è femmina, si dice. Per una volta fu maschio. L’uomo prese la lettera
che Giada aveva appoggiato, dopo averla letta, sul tavolino. Fece scorrere gli
occhi sulla scrittura incerta del carcerato.
“Cara Maria, ti ho vista dalla mia cella lavorare nel tuo
orto, scavare buche, concimare, attendere i frutti della tua fatica. Tu non sai
quanto noi siamo anime gemelle, quanto ti stimo, quanto apprezzo ciò che fai.
E, per questo, voglio farti un dono. Sai tu cosa farne, ma mi piacerebbe che
finisse sotto i pomodori, in quell’angolo del giardino dove il sole rimbalzava
sui tuoi capelli neri e ti faceva così bella.”
Nella mano della donna ci sarebbe dovuta essere la tazzina
del caffè. Non c’era. Al suo posto una pistola.
- Finisci di leggere –intimò Giada.
Marco non e aveva più voglia, avrebbe preferito gettare la
lettera e sparire da quel divano blu. Invece riprese la lettura.
“Noi due siamo uguali, il brivido dell’omicidio, l’eccitazione
della morte, tutte sensazioni che so provi anche tu. Ti ho vista, affannata,
mentre nascondevi sotto terra, nell’orto, le tue vittime. Non potevo vedere i
tuoi occhi, ma li immaginavo brillanti di gioia. Quando leggerai questa lettera
sarò morto, ma voglio farti un regalo, una nuova vittima per te. Nessuno saprà
che è lì, sarà venuto di nascosto. Non farlo soffrire troppo, è un bravo
ragazzo.
Con stima.
Federico.”