lunedì 1 agosto 2016

FATIMA

Racconto vincitore del Bugiardino d'oro al concorso "campionato italiano della bugia" 2016

  Fatima


13/04/2016 Evacuato l’aeroporto Schipol di Amsterdam. Lo scalo della capitale olandese è stato oggetto di un allarme, scattato per uno scatolone sospetto. Corpi speciali dell'esercito sono entrati in azione per una telefonata in cui si segnalava…

“Ding ding”
Fatima. Il nome si affaccia nella mia testa come un tuono inaspettato in un giorno di sole. La bambina di fronte a me, chiara, nei suoi occhi come cielo e capelli come grano, non somiglia affatto a mia figlia Fatima. Ma l’essenza della fanciullezza ingenua non ha confini di razza o di colori. Quella bambina così diversa mi appare mia figlia, per un istante, mentre gioca con lo stesso sonaglino. “ding ding”.

“Sfrush”
L’uomo seduto alla mia destra scorre le foto sullo smartphone. Ha gli occhi rossi e umidi di lacrime. La donna fotografata è bella, nonostante il velo islamico che le copre i capelli. La conosco, sua moglie Samira. Noi tre siamo cresciuti insieme nella terra matrigna del medio oriente, e ora è venuto il momento di dirsi addio. La cintura esplosiva sotto la maglia fa sudare. Ma non di caldo, di paura.

“Tu-tum”
Il cuore pare uscire dalle orecchie. Si avvicina il momento. Fisso Abdul dritto negli occhi e capisco il suo pensiero. Che è anche il mio. Mi guardo attorno e lo vedo. E, finalmente, dopo due settimane, sorrido.

“Deng”
La moneta si nasconde nella fessura del telefono pubblico, illuminando il display. Pochi secondi e riattacco. Ora si tratta solo di aspettare. E non si fanno attendere. Sirene e scalpiccio di passi di corsa. Via!

“Spluf”
Le nostre cinture esplosive scompaiono in uno dei canali di Amsterdam. Abdul sorride. Le foto mandate al nostro capo ci faranno da alibi. “Operazione annullata, troppa polizia”. È bastato telefonare di uno scatolone sospetto in aeroporto… E ora a casa, a riabbracciare Fatima.

lunedì 3 agosto 2015

L'azzurro

Terzo classificato al Campionato italiano della bugia, sezione letteraria.

Il caldo si fa sentire anche a Villa Serena in quest’estate torrida del 1994. Il lavoro di medico della casa di riposo l’ho sempre adorato. Passo davanti ai miei pazienti nella sala d’attesa dell’ambulatorio. È alto e magro, quello seduto nell’angolo. Scorgo i suoi occhi azzurri. E rimango sconvolto. La prima volta che lo trovo lì, ma quell’azzurro l’ho già visto. Cinquant’anni prima.



Il muro dietro la chiesa era pieno di buchi. Di pallottole. Arrivai di corsa nella piazza ed era lì. Bendato, a fianco di altri dieci uomini. Mio papà. E davanti a lui sei soldati tedeschi con il fucile ancora poggiato a terra. Sapevo cosa sarebbe successo. Avrebbero preso la mira e gli uomini vicino al muro sarebbero caduti. Ma stavolta era il mio papà che avrebbero ucciso. A dieci anni non si è pronti a vedere morire il proprio papà. Non lo si è mai. L’uomo alto e biondo, a fianco dei sei soldati con l’elmetto, disse una parola. Incomprensibile, ma dal suono tremendo. Tutte le parole, in tedesco, sembrano spaventose. Gli uomini alzarono i fucili. Mi gettai alle gambe dell’ufficiale tedesco. Due occhi gelidamente azzurri si specchiarono nei miei.
«Tuo padre?» disse in un italiano dal suono agghiacciante.
Feci cenno di sì.
Estrasse dalla tasca una moneta. «Si esce l’aquila no spariamo» e lanciò il dischetto dorato verso il cielo. Pregai. Tanto. E poi riaprii gli occhi. La moneta, a terra, mostrava un’aquila che ghermiva una svastica. Raccolsi la moneta, felice, e gliela porsi. Sbirciai l’altro lato. Vi era incisa un’altra aquila. L’ufficiale biondo mi guardò ancora e accennò un occhiolino.

L’uomo dagli occhi azzurri, ma con l’espressione confusa  di chi è colpito dal morbo di Alzheimer, alza lo sguardo. Due occhi gelidamente azzurri si specchiano nei miei. E accennano un occhiolino.

venerdì 17 aprile 2015

La casa in riva al mare (la fine)

Dalla sua cella lui vedeva solo il mare 
ed una casa bianca in mezzo al blu
una donna si affacciava…. Maria
E’ il nome che le dava lui
Alla mattina lei apriva la finestra
E lui pensava quella e’ casa mia
Tu sarai la mia compagna Maria 

Una speranza e una follia

Lucio Dalla - La casa in riva al mare.


Il campanello, in ottone, gli svelava finalmente il vero nome: Giada Franchini. Lui cercava Maria. Ma sapeva che il suo nome non sarebbe stato quello. Il suo indice si accanì sul pulsante. Avrebbe risposto, prima o poi. Il legno scuro della porta si spostò, ma solo di poco. Marco ne vide il viso. Due occhi verdi lo fissavano oltre quell’uscio pesante. Pensò allo sguardo triste, supplicante di quel detenuto che non avrebbe visto mai più e si fece coraggio.
- Buonasera, signora, sono una guardia penitenziaria del carcere qui di fronte, devo consegnarle un pacchetto.
Mai si era sentito, prima di allora, così inadeguato. Glielo aveva promesso, sapeva che Federico sarebbe morto, di lì a poco e si era lasciato convincere. Se il direttore del carcere lo avesse saputo, Marco avrebbe passato dei guai. Il piccolo pacco scivolò nelle mani della donna. Senza una parola le dita si avvolsero sulla carta a fiori e rientrarono nella casa coperta da un’edera invadente.
Voltò le spalle. Il suo compito era stato assolto, la coscienza poteva dormire sonni tranquilli. Non fece in tempo a fare dieci passi, la voce femminile lo fece voltare ancora verso quella casa che aveva, come solo confine, l’acqua irrequieta del golfo.
- Grazie. 
La voce della donna gli diede la sicurezza di avere compiuto ancor più del suo dovere. Tornò a dirigersi verso il carcere, ma quella parola sussurrata di là dalla porta rimase legata alla sua anima.

Marco non capiva. Non capiva chi viveva lì dentro senza una speranza. La vita è nulla senza aspettative. Eppure l’unico modo per sopravvivere in un carcere era dare un valore diverso alle cose. Innanzitutto la vita, la propria. E poi il resto. Ma la vita, prima o poi ti saluta, se ne va. E lascia le tue cose a chi ti deve svuotare la cella. Marco si ricordò della sera precedente. Federico la chiamava Maria, la vedeva dalla cella, la seguiva, la venerava. Le normali follie di un ergastolano. Non sapeva neppure che il suo vero nome era Giada. Ma l’amore non si fa fermare da quattro barre di metallo verticali, pensò la guardia carceraria.
Marco svuotò l’armadietto metallico. Una lettera sigillata. Per Maria. Basta, pensò Marco, Federico mi ha chiesto semplicemente di portarle il pacco, perché dovrei sentirmi obbligato anche a portarle la lettera? Ricordò la sua promessa, due giorni prima: “quello che troverai per Maria, portalo a lei, ti prego”.

Il  campanello, ancora in ottone, lo fissava. Sembrò chiedergli: “che ci fai ancora qui?”. Eppure Marco si trovava, per la seconda volta, davanti a quell’uscio, ad affondare il dito nel pulsante per richiamare quegli occhi verdi che Federico, dalla sua cella non aveva potuto scorgere.  La porta, questa volta, si aprì completamente. Il sorriso della donna lo ripagò del tragitto, a piedi, dal carcere a quella casa in riva al mare. Tremante le porse la lettera. L’anulare della mano destra della donna era cinto da quell’anello che Federico le aveva costruito nella sua cella. Fil di ferro e una gemma finta. Aveva visto Federico mentre lo realizzava. E aveva chiuso un occhio. Decisamente romantico, tenendo conto che Federico era un serial killer che aveva massacrato una decina di donne. Come Maria, o Giada, o come diavolo si chiamava.
Il divano era morbido, blu come la notte. Il tavolino, davanti alle gambe dell’uomo, era impolverato. Giada non doveva ricevere spesso ospiti, pensò. Il rumore inconfondibile della moka che sputa il caffè ricordò a Marco che la donna sarebbe tornata in quel salotto dai mobili scuri tra poco. La curiosità è femmina, si dice. Per una volta fu maschio. L’uomo prese la lettera che Giada aveva appoggiato, dopo averla letta, sul tavolino. Fece scorrere gli occhi sulla scrittura incerta del carcerato.
“Cara Maria, ti ho vista dalla mia cella lavorare nel tuo orto, scavare buche, concimare, attendere i frutti della tua fatica. Tu non sai quanto noi siamo anime gemelle, quanto ti stimo, quanto apprezzo ciò che fai. E, per questo, voglio farti un dono. Sai tu cosa farne, ma mi piacerebbe che finisse sotto i pomodori, in quell’angolo del giardino dove il sole rimbalzava sui tuoi capelli neri e ti faceva così bella.”
Nella mano della donna ci sarebbe dovuta essere la tazzina del caffè. Non c’era. Al suo posto una pistola.
- Finisci di leggere –intimò Giada.
Marco non e aveva più voglia, avrebbe preferito gettare la lettera e sparire da quel divano blu. Invece riprese la lettura.
“Noi due siamo uguali, il brivido dell’omicidio, l’eccitazione della morte, tutte sensazioni che so provi anche tu. Ti ho vista, affannata, mentre nascondevi sotto terra, nell’orto, le tue vittime. Non potevo vedere i tuoi occhi, ma li immaginavo brillanti di gioia. Quando leggerai questa lettera sarò morto, ma voglio farti un regalo, una nuova vittima per te. Nessuno saprà che è lì, sarà venuto di nascosto. Non farlo soffrire troppo, è un bravo ragazzo.
Con stima.
Federico.”

giovedì 19 marzo 2015

Haiku per l'otto maggio

Haiku vincitore del contest Haiku per l'otto maggio.

Fiore legato.
Cinquanta sfumature
sulla sua pelle.

lunedì 4 agosto 2014

Terzo classificato al Campionato nazionale della bugia

Piccolo lago

Lo sapevano tutti, lì. Ma nessuno diceva niente. E tutto era andato bene. Per anni.
C'era una vecchia leggenda che ne parlava. E il ristorante "Piccolo lago" la aveva sfruttata.
Mauro osservò il locale. Vuoto. Tristemente vuoto. I tavolini candidi sarebbero rimasti immacolati. Nessuna prenotazione oggi, nessuna domani. “Specialità: Polpo di lago” recitava ancora l’insegna davanti al ristorante. Avrebbe dovuto cancellarla. Nel minuscolo paese che si tuffava nell’altrettanto piccolo lago, nessuno credeva all’esistenza del polpo gigante di lago.
I paesani  vedevano i camion delle pescherie scaricare grosse casse di molluschi surgelati provenienti da qualunque mare, ma non dalle acque su cui si specchiavano le loro case. A tutti andava bene così. I turisti arrivavano, assaggiavano il polpo e ne esaltavano la differenza di sapore, la bontà, la freschezza. Tutti se ne andavano soddisfatti e ancora più ne tornavano.
Tutto era andato bene. Fino a quel giorno.
Aveva sbagliato, Mauro, a cambiare commercialista. Le fatture del pesce surgelato erano uscite dall'ombra. Un articolo sul giornale, una denuncia per truffa, mille telefonate, per disdire le prenotazioni.
Il sole si stava inabissando nelle acque appena mosse dalla brezza tiepida della sera estiva, e insieme a lui, la vita di Mauro.

Era distratto, Mauro, mentre nuotava. Pensava a quanto fosse bello il lago in cui era immerso, alla bolletta della luce da pagare, al suo conto in banca più rosso di quel tramonto sull'acqua.
Era distratto.

Se non lo fosse stato, forse, avrebbe potuto notare tutte quelle grandi ombre che, sotto di lui, vicino al fondo del lago, agitavano i tentacoli.

martedì 15 luglio 2014

Primo classificato al premio nazionale Antonio Fogazzaro 2014.




Tre dei miei racconti del Fogazzaro


POST OFFICE.
Plano dolcemente. Come sa planare la carta, ondeggiando a destra e a sinistra. Un metro è una bella distanza per una lettera. Infine mi poso. Attendo che qualcuno mi raccolga per tornare tra le mie simili. Un calcio. Questa impiegata delle poste è proprio interdetta, mi fa cadere col gomito e poi mi sbatte nel luogo più nascosto del bancone.
                                                                ******
Oggi è venuto a trovarmi un ragnetto. Mi ha riempito della sua tela. Almeno ho visto qualcosa di vivo.
                                                                ******
La polvere, ormai, mi ha ricoperto. La donna delle pulizie, che viene la notte, passa il tempo a dormire e ascoltare musica.
                                                                ******
La scritta “Per Anna Corti” ormai è sbiadita. Anche quella “Mittente Federico Santi” è quasi illeggibile.
                                                                ******
Gli operai smontano il bancone. L’ufficio postale cambia sede. Finisco tra i pezzi di legno. Addio.
                                                                ******
Federico era un timido. Le sue parole d’amore le affidava alle lettere.
Non ricevette mai risposta da Anna. Si sposò poi cinque volte.
Le sue mogli riposano nel freezer della sua cantina.
                                                                ******
Anna sposò poi Franco, un bravissimo uomo.
Che in cantina ha un freezer gigantesco.

URLA DAL BALCONE.

Dieci minuti.
Osservo l’orologio a muro della cucina. Ancora dieci minuti precisi. Lo sguardo si perde fuori dalla finestra, nell’azzurro del cielo mattutino. Che meraviglia l’alba. Con la sua brezza fresca soffia via le angosce della notte. Per chi non ha dormito è il traguardo tanto atteso.
Cinque minuti.
Poco tempo, poco dolore. L’obiettivo è vicino. Stavolta sarò puntuale. Sono sempre arrivata tardi agli appuntamenti della vita. E li ho sempre mancati.
Due minuti.
Ci vuole precisione per fare le cose giuste. E io non le ho mai fatte. L’elenco dei miei fallimenti è lungo più di sei piani. Le lancette paiono ondularsi al mio sguardo bagnato dalle lacrime. Penso di regalarmi ancora qualche minuto in più ma a cosa servirebbe? Ormai la decisione è presa.
Un minuto.
Il sole basso sull’orizzonte s’intrufola nella cucina. Respiro l’aria profumata di settembre con avidità.
Pochi secondi.
Si va. Mentre lascio il balcone alle mie spalle e l’asfalto attende di ricevermi mi accorgo di essere in ritardo. Ci vuole tempo per volare per sei piani.
Anche al mio ultimo appuntamento arriverò tardi.

L'UBRIACONE.
(sottotitolo: E...)
E ti senti una merda. E ti alzi con la bocca che sa di amaro e la testa che sembra staccata. E dici: "stavolta smetto". E ci pensi, un ora, due ore. E la vedi. E ti fissa dal tavolo, quella stronza bottiglia di whisky. E te ne vai, sperando che restarle lontano sia la soluzione. E ti senti inadeguato. E pensi che gli altri sono meglio di te. E la desideri. E speri nel suo oblio. E sogni che la gente ti apprezzi, ma non lo fa. E cedi a lei. E la apri. E senti il fuoco scendere nella gola e il cervello che si stacca dalla testa. E ti senti bene. E sai che, domani, sarà ancora peggio